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OSPEDALE MALATTIE MORTE

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Papà svegliati, papà è ora di andare

“L’ultima tac non è andata bene”.

Così il dottore a metà novembre, dopo meno di un anno dalla diagnosi, ci blocca il respiro, mentre passa il referto a mio padre che scuote la testa e dice:

“Me lo immaginavo”.

 Rilegge quel foglio che vorrei strappargli dalle mani.

Forse è talmente agitato che nemmeno lo riesce a comprendere, almeno è quello che spero.

Provano con la radioterapia.

In macchina, al rientro, vuole che mettiamo su un CD di Perez Prado. Mentre la musica suona e tutto intorno tace, guardo fuori dal finestrino e mi accorgo che non  riesco più a percepire il mondo esterno.

La musica da trenino dell’ultimo dell’anno con le trombette, in questa circostanza, riesce a essere talmente triste, insopportabile tanto è grottesca.

“Beh, visto quello che ha detto il dottore penso proprio che domani mi comprerò un paio di scarpe nuove. Mi sa che ho ancora molta strada da fare”.

Vorrei volare via.

Da quel momento, tutti i pomeriggi di dicembre ce ne andiamo a fare la radioterapia.

Carlo non si fa nemmeno sentire.

E’ troppo impegnato a cambiare la schermata mentre fa la battaglia navale al computer, quando si accorge che gli operai lo spiano dalla finestra, e a scaccolarsi il naso mentre chatta sui siti porno con il nickname: “Carlo Bruni”, nascosto dietro la scrivania del suo ufficio, ma soprattutto a traghettare denari oltreoceano.

Le dottoresse con le corna delle alci sulla testa e l’albero di natale riempiono lo sfondo giallastro della sala d’aspetto.

Mi guardo i palmi delle mani e mi chiedo se non sto morendo anch’io. Solo tre mesi prima della diagnosi di cancro ai polmoni a mio padre, io sono stata operata per un cancro al seno. 

Da allora mi hanno bloccato le mestruazioni, prendo farmaci e ogni sei mesi crepo di paura per quei cazzo di controlli.

Avevo già avuto il piacere di trascorrere il Natale all’Istituto Tumori di Milano con mia madre. 

Avevo già metabolizzato a vent’anni lo stridente contrasto tra “lucine-felicità della festa degli altri”, lo scambio degli auguri, e l’angoscia della propria disperazione.

Adesso non le vedevo nemmeno più.

Sono io con mio padre e questo mi basta. Tutti i giorni lo vado a prendere a casa. 

E' sempre sul divano che dorme.

“Papà, svegliati. Papà, è ora di andare”.

 Apre gli occhi, e li sgrana come se venisse da molto lontano, stupito di essere ancora vivo e mi sorride.

Prendiamo sempre una Fanta dopo la radioterapia.

Il giorno di Natale ci siamo io, mio marito, mia zia, il cane e nessun altro.

Mio padre sta male. 

Di Carlo nemmeno l’ombra ingombrante.

Se n’è andato in giro con la sua Mercedes fino a pochi giorni prima del ricovero.

Il giorno di Natale è entrato per l’ultima volta, anche se lui forse non lo sa, nella sua fabbrica, con le gambe che lo sostengono a fatica. Là c’è suo figlio e come sempre discutono.

“Perché tieni acceso il riscaldamento se la fabbrica é chiusa per ferie?”.

Carlo risponde con insulti e bestemmie, senza pietà. Era il suo estremo tentativo di rivendicare una parte di se stesso che gli era stata rubata. Era ancora il tentativo di esternare al figlio il suo disprezzo per avere svenduto senza nemmeno interpellarlo l’ultimo brandello della sua vita.

Il 2 gennaio non riesce più a camminare.

Lo vedo salire sull’ambulanza com’era già successo a mia madre. E so che, come lei, non tornerà più.

Mia zia piange.

Mio marito fuma, e mio padre, come sempre, sorride.

Nello stesso momento Carlo sta partendo per Marsa Alam.

Non lo avverto nemmeno, tanto a lui mica gliene frega qualcosa.

Qualche settimana prima, lo avevo chiamato una sera, tanto ero disperata a vedere che nostro padre continuava a peggiorare.

Cercavo un conforto.

“Potevi anche evitare di rovinarmi il sabato sera. Se tu vuoi rovinarti l’esistenza, sono cazzi tuoi. Io ho il diritto di divertirmi.”

Sarà al funerale tutto abbronzato, in prima fila per lo show finale.

Gli operai sono venuti tutti. Anche il tirapiedi dell’imprenditore “amico”, quello che per conto di Carlo,  ha avuto il coraggio di dirgli in faccia che la sua presenza alla Nichel Cromo, la fabbrica a cui lui aveva dato vita, non era più gradita.

Li vedo piangere e mi vergogno io per loro.

Mentre tumulano nel silenzio spettrale e sospeso, l’unico rumore ammesso è quello della pialla che mescola nel secchio la calce e a ritmo cadenzato mette su un mattone alla volta.

La bara scompare lentamente dietro quel muro che si sta alzando, come quando ti distrai mentre giochi a Tetris e in pochi secondi ti si riempie la schermata di tesserine e vai in game over.

Carlo rompe improvvisamente la monotonia di quel suono rispettoso, dignitoso e ipnotico, l’unico che si potrebbe sopportare in questo momento.

Sta inscenando una crisi isterica. Lo so che sta recitando.

Urla e singhiozza, mentre alcuni parenti inconsapevoli della sua falsità accorrono a consolarlo.

Un grande imbarazzo ecco l’unico sentimento che questa scena penosa riesce a indurmi. Mentre lo guardo sono basita dalla sua assoluta mancanza di dignità.

 

scromata

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