Le fabbriche del settore metalmeccanico, si sa, non sono posti per signorine e nemmeno per chi ha studiato lingue e letterature straniere moderne e ha fatto una tesi sul magnetismo animale, come me. Stringo la mano al relatore, mi sento chiamare dottoressa per l’unica volta in tutta la mia vita dal fotografo che mi allunga il suo biglietto da visita, e il giorno dopo attacco pezzi di plastica su dei telai con le altre operaie.
Guardo i telai con sopra i pezzi e l’occhio è fermo, immobile, lontano. Ho sempre la diarrea, e mi gira la testa, ho fame di aria. Il magnetismo animale di Mesmer è trapassato remoto chiuso nell’ultimo cassetto di un armadio che non aprirò mai più.
“Oh c’è il padrone! Muov’e mani, muov’e mani”. Ma perché? Lo trovo umiliante, ma non lo dico nemmeno a me stessa. Da qualche parte lo penso. Accellero il ritmo come fanno gli altri perché arrivano i padroni. Vorrei che si accorgessero di me, che mi sorridessero. Eccoli lì, che mi passano davanti e nemmeno girano gli occhi dalla mia parte. Si fermano alla macchina del caffè e parlano. Quando Carlo non tira degli accidenti a suo padre urlando mi sento già soddisfatta, chino la testa e continuo a lavorare. Loro sul palcoscenico, io in platea. Di giorno attacco i pezzi e di notte mi sogno che attacco i pezzi. Quando riesco ad addormentarmi. Era come se ci fosse una colla che mi teneva appiccicata. L’unica realtà possibile per me. Per quanto mi dibattessi qualcuno o qualcosa mi impediva di alzare la testa, prendere lo slancio e staccarmi da quell’immobilismo frustrante. Sempre pensato che fosse solo un problema mio, invece, con il senno di poi, era Charlie che faceva di tutto perché non salissi su quel palco, e mio padre preferiva non pensare, e lasciarlo fare.
Aveva un passo tutto suo, “il vecchio”, come lo chiamavano gli operai. Passava con la mano in tasca, la schiena diritta sulle spalle larghe, camminava abbastanza sculettante. “Lo sai che tuo padre si è scopato la Tania? Tanti anni fa, eh…” “Si, si, lo so”. Boom, che male che fa. Certo che non lo sapevo. Vedo mia madre stesa sul divano, mio padre che rientra tardi. Due immagini furtive che riescono a sfuggire al controllo, e in fretta mi obbligo a rimettere tutto in archivio, sotto la voce “Usi e costumi dell’uomo medio negli anni settanta/ottanta”. Eccolo lì che arriva, passo veloce, mentre si gratta freneticamente dietro l’orecchio, la fronte uguale a quella di uno sharpei:
“Ehi tu. Sì dico a te”.
Sto cercando di fingere l’indifferenza, ma le ascelle mi sudano. Imbarazzante. E’ mio padre quello che sta urlando con la mia compagna di lavoro. Mi sento come se quel rimprovero fosse rivolto anche a me:
“Te l’ho insegnato mille volte come devi fare. Ma è inutile. Tutto fiato sprecato. Tanto non capisci niente”. La frustrazione, penso che sia proprio lei, che ti lascia quel senso d‘inappagato, di domanda senza una risposta, di sospensione, vuoto.